DAVIDE LICARI – La reazione è stata immediata e netta, no alle scorie radioattive in Sicilia. Sembrerebbe quasi un mantra buddista mentre viene recitato dalle bocche dei sindaci, dei politici appartenenti ai diversi schieramenti, dei portavoce delle associazioni. E tutti sono d’accordo, forse per la prima volta nella storia: le scorie radioattive devono essere conservate in sicurezza, ma non nel nostro territorio. Not in my backyard direbbero oltreoceano.
La pubblicazione della CNAPI. Nella notte tra il 4 e il 5 gennaio Sogin, la società statale responsabile dello smantellamento degli impianti nucleari italiani, e della gestione e messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi, ha pubblicato la Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee (CNAPI), che individua in Sicilia quattro delle 67 “aree potenzialmente idonee” utili alla realizzazione dell’impianto di deposito nazionale delle scorie radioattive nei comuni di Calatafimi-Segesta, Petralia Sottanae Butera. Costo complessivo dell’opera: 1,5 miliardi di euro. Questo l’avviso pubblico di Sogin consultabile tramite il portale www.depositonazionale.it:
“Sogin S.p.A, (…) è il soggetto responsabile della localizzazione, realizzazione e dell’esercizio del Deposito Nazionale destinato allo smaltimento a titolo definitivo dei rifiuti radioattivi e del Parco Tecnologico. Sogin S.p.A., tenendo conto dei criteri previsti nella Guida Tecnica n. 29 dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) elaborati sulla base degli standard dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), definisce una proposta di Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee (CNAPI) a ospitare il Deposito Nazionale e Parco Tecnologico”.
Una storia infinita. Da quasi vent’anni le diverse maggioranze che si sono succedute alla guida del Paese stavano pianificando la realizzazione di un deposito nazionale temporaneo ad alta sicurezza per la conservazione dei rifiuti radioattivi a media e bassa attività prodotti in Italia: reagenti farmaceutici, mezzi radiodiagnostici quali la risonanza magnetica nucleare, terapie nucleari, radiografie industriali, guanti e tute dei tecnici ospedalieri, controlli micrometrici di spessore delle laminazioni siderurgiche, il torio dei quadranti degli orologi, i marker biochimici, i biomarcatori. Sono compresi nell’elenco anche i parafulmini e i rilevatori di fumo. Ma a tutto ciò si aggiunge il problema del materiale radioattivo proveniente dalle centrali nucleari.
Le dichiarazioni di Legambiente. Queste le dichiarazioni di Stefano Ciafani, presidente di Legambiente, divulgate mediante comunicato stampa: “Lo smaltimento in sicurezza dei nostri rifiuti radioattivi è fondamentale per mettere la parola fine alla stagione del nucleare italiano e per gestire i rifiuti di origine medica, industriale e della ricerca che produciamo ancora oggi. La partita è aperta da tempo, non è semplice ma è urgente trovare una soluzione visto che questi rifiuti sono da decenni in tanti depositi temporanei disseminati in tutta Italia. Per questo dal 2015 abbiamo più volte denunciato il ritardo da parte dei ministeri competenti nella pubblicazione della Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee. Ora è necessario che si attivi un vero percorso partecipato, che è mancato finora, per individuare l’area in cui realizzare un unico deposito nazionale, che ospiti esclusivamente le nostre scorie di bassa e media intensità, che continuiamo a produrre, mentre i rifiuti ad alta attività, lascito delle nostre centrali ormai spente grazie al referendum che vincemmo nel 1987, devono essere collocate in un deposito europeo, deciso a livello dell’Unione, su cui è urgente trovare un accordo”.
L’eredità atomica italiana. L’ultima delle centrali nucleari costruite in Italia è stata spenta nel 1990 a Caorso, in provincia di Piacenza, ma a distanza di trent’anni non è stato ancora deciso dove e come stoccare i rifiuti radioattivi in sicurezza. Tuttavia, la realizzazione dei siti di stoccaggio è precisa richiesta dell’Unione Europea e “tutti gli Stati membri dotati di programmi nucleari, eccetto uno”, ovvero l’Italia, “prevedono lo sviluppo di depositi di smaltimento geologico”. Anche nel resto d’Europa i Governi hanno rinviato per anni la scottante decisione su dove stoccare i rifiuti pericolosi. “Solo Finlandia, Francia e Svezia hanno adottato misure concrete”, riconosce la Commissione europea nella relazione sul trattamento delle scorie datata 17.12.2019.
Il precedente di Scanzano Jonico. In Italia la ricerca di un sito di stoccaggio ha avuto inizio nel 2003, durante il secondo Governo Berlusconi. In quell’anno il generale Carlo Jean, commissario del Governo, aveva individuato l’area idonea per il deposito sotterraneo al quale destinare i rifiuti ad altissima radioattività nel piccolo comune di Scanzano Jonico, in provincia di Matera. La forte contestazione degli abitanti locali indusse il Governo ad accantonare il progetto e a virare sulla costruzione del deposito nazionale. Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente, in merito dichiara: “Tutti ricordiamo quello che successe nel 2003 quando l’allora commissario della Sogin e il governo Berlusconi scelsero, con un colpo di mano e senza fare indagini puntuali, il sito di Scanzano Jonico in Basilicata che, dopo le sollevazioni popolari a cui partecipammo anche noi, fu ritirato. Si tratta di un’esperienza davvero terribile da non ripetere. La pubblicazione della CNAPI è solo il primo passo. Siamo infatti convinti che i troppi ritardi e la poca chiarezza che hanno caratterizzato fino ad ora questo lungo e complesso percorso, rischiano di far partire il tutto con il piede sbagliato. Formalmente da oggi ci sono 60 giorni per produrre delle osservazioni da parte del pubblico al lavoro fatto, ma non ci si può limitare a questo. Ribadiamo con fermezza l’urgenza di avviare un percorso trasparente, partecipato e condiviso col territorio che coinvolga i cittadini, le associazioni, le amministrazioni locali e la comunità scientifica, a partire dalle informazioni contenute nella CNAPI”.
La proposta alternativa di Greenpeace. Subito dopo la pubblicazione della CNAPI Greenpeace fa uscire un comunicato stampa che pone l’organizzazione non governativa ambientalista in contraddizione con la posizione egemone emersa nelle primissime ore. “Greenpeace ribadisce di non condividere la strategia scelta dall’Italia, basata sull’unica ipotesi di dotarsi di un solo Deposito Nazionale che ospiti a lungo termine i rifiuti di bassa attività e, ‘temporaneamente’, i rifiuti di media ed alta attività (…) oltre a essere l’unico caso al mondo di gestione combinata dei rifiuti, tutto ciò ha implicazioni non secondarie: come la possibile decisione di ‘nuclearizzare’ un nuovo sito vincolandolo a lungo termine alla presenza di rifiuti pericolosi (…) secondo Greenpeace sarebbe stato più logico verificare più scenari e varianti di realizzazione del Programma utilizzando i siti esistenti o parte di essi e applicare a queste opzioni una procedura di Valutazione Ambientale Strategica (VAS), in modo da evidenziare i pro e i contro delle diverse soluzioni”.
Le dichiarazioni di Minopoli. Umberto Minopoli, presidente dell’Associazione italiana nucleare, ha condiviso tramite i social una lunga dichiarazione sul tema: “Finalmente un governo che ha trovato il coraggio di pubblicare la carta. Finora aveva prevalso la codardia e, soprattutto, la sottovalutazione degli italiani (…) la carta (che non individua siti specifici ma si limita a indicare aree e vasti territori -circa 67- che non presentano controindicazioni ad una eventuale localizzazione) serve, appunto, ad aprire la consultazione e il dibattito pubblico. Solo dopo un lunghissimo (per me troppo lungo) iter di consultazione verrà scelto un luogo specifico. La legge istitutiva del deposito auspica una competizione aperta tra territori: i vantaggi e gli incentivi ad avere il Deposito sono molti e consistenti. In Europa, e dappertutto nel mondo, la scelta del Deposito è frutto di una vera gara tra territori per accaparrarselo”.
Una carta scomoda. La normativa per il futuro deposito nucleare nazionale venne scritta nei sette anni successivi ai fatti di Scanzano Jonico e nel 2010, tramite decreto legislativo numero 31, furono stabiliti i criteri di selezione necessari per l’identificazione delle aree. Da quel momento la carta CNAPI ha subito una serie di rinvii fino al 2 gennaio 2015, data in cui è stata consegnata ufficialmente; successivamente il documento verrà sottoposto a segreto di Stato. Questo fino al 30 dicembre 2020, il giorno in cui Sogin ha ricevuto il nullaosta del Governo Conte per la pubblicazione.
I criteri sanciti dall’ISPRA. La mappa si basa sui criteri di selezione stabiliti nel 2014 dall’ISPRA, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, secondo cui i luoghi identificati non devono essere densamente abitati. Inoltre tali aree devono avere sismicità modesta e devono essere prive di vulcani, nonché del rischio idrogeologico. Inoltre corre l’obbligo di situare la struttura non oltre i 700 metri di altezza sul livello del mare, evitando eccessive pendenze. La vicinanza al mare delle aree è fattore di svantaggio come l’eccessiva prossimità ad autostrade e ferrovie, pur necessarie per essere raggiunte dai carichi di materiale da sottoporre a stoccaggio. Tuttavia, stando al criterio undici, occorre tenere in considerazione le produzioni agricole di particolare qualità e tipicità e i luoghi di interesse archeologico e storico.
Il criterio numero undici. Occorre riflettere su quest’ultimo criterio. Le località scelte sono note per l’intensa produzione agricola, la provincia di Trapani possiede la maggiore superficie vitata d’Italia; per la biodiversità, Petralia Sottana è sede dell’ente Parco delle Madonie. Inoltre è da evidenziare la presenza di importanti reperti archeologici dalla rilevanza storica, ad esempio l’intera area archeologica di Segesta che si compone di un teatro e di un tempio ellenico ancora perfettamente integri. Territori in cui, grazie alle peculiarità delle bellezze naturalistiche presenti, sarebbe possibile valorizzare i pregi benedetti dalla natura per rilanciare le sorti di questa terra. Basti pensare alla intensa produzione di vino, alle saline che costeggiano diversi chilometri di costa tra Marsala e Trapani, ai fondali cristallini di Favignana, alle meraviglie del Golfo di Macari.
L’inquinamento, pratica “storica” in Sicilia. La Sicilia è isola dolente, che ha sofferto l’inquinamento delle raffinerie, non solo a Gela e a Milazzo, l’inurbamento senza regole, la cementificazione sfrenata delle coste e il sacco della Conca d’Oro di Palermo. Basti osservare il quadro che emerge dal V Rapporto del Progetto Sentieri, coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità, relativo allo stato di salute della popolazione residente in 45 siti di interesse nazionale per le bonifiche, di cui 4 in Sicilia, il quale fa riferimento a un periodo di studio lungo quasi otto anni (2006-2013). Dal rapporto si osserva ad esempio un “eccesso della mortalità generale e della mortalità per malattie dell’apparato circolatorio in entrambi i generi” a Biancavilla, in provincia di Catania; a Gela, nel periodo 2010-2015, su un totale di 4.606 nati sono stati osservati 200 bambini con malformazione congenita.
Parlare di ambiente in Sicilia vuol dire scontrarsi con le storia dei malati di tumore allo stomaco e al pancreas, con i volti di uomini, donne e bambini che soffrono, o che hanno sofferto, a causa della distruzione dell’ambiente da parte dell’uomo. Una isola che ha già pagato la sua parte meriterebbe un piano di riconversione ecologica, non di certo un deposito per le scorie radioattive. Un deposito che però deve essere realizzato da qualche parte in Italia. E hanno ragione a lamentarsi i cittadini di Butera, così come gli abitanti di Carmagnola in Piemonte, o quelli di Gravina di Bari. Nessuno desidera un deposito di scorie radioattive dietro casa, ma al tempo stesso non è possibile affidare le scorie prodotte dall’Italia per il benessere degli italiani ad altri paesi, magari approfittando della povertà di qualche nazione del terzo mondo.